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Corlo ricorda il suo «prevosto giansenista»

La distanza fra le idee apprese negli studi e la vita pastorale di allora misero in crisi don Sante Montorsi Grazie alla pazienza del vescovo Tiburzio Cortese poté superarla e avviare un lungo e operoso ministero, al quale si deve anche la costruzione della chiesa parrocchiale nel 1802

Il giansenismo non è un argomento da domenica pomeriggio, per usare un eufemismo. Tuttavia, la scorsa domenica la sala parrocchiale «Teatro Incontro» a Corlo era piena di pubblico – non necessariamente aduso a disquisizioni teologiche postprandiali per la presentazione del volume Don Sante Montorsi (1761-1842), un parroco giansenista a Corlo (Il Fiorino, 2022) di Stefano Baroni, vicepresidente dell’Associazione di storia locale «Ezechiello Zanni» di Formigine, con prefazione di don Fabrizio Rinaldi. Baroni, medico di professione e storico per passione – con laurea in storia medievale presso l’Ateneo bolognese – ha brillantemente ricostruito le vicende umane e sacerdotali di un parroco di campagna del Settecento che si trovò coinvolto nella crisi giansenista tra gli ultimi anni dell’Antico regime e l’avvento del nuovo ordine sorto dalla Rivoluzione francese.

Don Sante Montorsi, nato nel 1761 a Montorso di Pavullo, era «nipote d’arte », per così dire, essendo stato destinato fin da fanciullo alla vita ecclesiastica e, a tal fine, affidato alle cure dello zio, don Domenico Montorsi, parroco di Corlo, dal quale apprese la carità concreta ed operosa verso i poveri del paese. In quel tempo, il Seminario modenese era un piccolo edificio inglobato nel complesso canonicale contiguo al Duomo – non ancora isolato da via Lanfranco – ed era normale che solo una minoranza di seminaristi vi alloggiasse: gli altri abitavano a pigione in città o presso i parroci. A Modena, don Sante si trasferì per gli studi universitari alla Facoltà di Teologia. Laureato nel 1783, fu ordinato sacerdote il 21 maggio 1785 nella Cattedrale di Reggio. Nei successivi due anni fu a perfezionarsi a Pavia, centro di diffusione del giansenismo, rappresentato in particolare dall’abate Pietro Tamburini (1737-1827), dal quale il Montorsi fu raccomandato al primo ministro ducale Munarini in vista di una conveniente sistemazione in patria.

Rientrato a Corlo nel 1787, l’anno seguente, dopo la morte dello zio don Domenico, venne nominato parroco a sua volta, subentrandogli in un ministero pastorale che sarebbe durato mezzo secolo. Qui, per il giovane parroco, iniziarono le incomprensioni e le difficoltà con i suoi parrocchiani e con i confratelli sacerdoti delle parrocchie limitrofe: infatti, il giovane don Montorsi iniziò a contrastare forme di devozione popolare che riteneva superstiziose oltre che a predicare una morale rigorosa ai fedeli, negando anche più volte l’assoluzione sacramentale. Tutte cose che gli valsero la fama di giansenista. Il giansenismo, dottrina condannata dalla Chiesa da ultimo con la bolla Unigenitus (1713), si era diffuso dalla Francia all’Italia ed aveva fatto presa in particolare sui sacerdoti e sui fedeli più istruiti in particolare per la forma apparentemente più coerente ed esigente di cristianesimo che proponeva, che sfociarono in Italia nel controverso Sinodo di Pistoia (1786). Non a caso, il libro mostra anche le ripetute crisi di coscienza di don Montorsi, che più volte scrive al vescovo Tiburzio Cortese esprimendo la volontà di rinunciare al mandato pastorale.

Proprio alla pazienza di monsignor Cortese si dovette la permanenza di don Sante Montorsi a Corlo, dove, superata la sua personale «crisi giansenista», rimase parroco fino al 1837, spendendosi per la cura delle anime e per l’amministrazione materiale della parrocchia e costruendo tra l’altro l’attuale chiesa parrocchiale, il Santuario della Madonna della Neve, dove fu sepolto quando nel 1842 si spense, dopo una vita lunga e operosa.

Paradossalmente, il «prevosto giansenista » che aveva suscitato scalpore tra i parrocchiani per la rimozione della statua della Madonna del Rosario, è oggi ricordato da due ritratti costituiti da altrettanti ex voto alla Madonna della Neve, uno del 1818, l’altro degli anni ‘30 dell’Ottocento, conservati in chiesa parrocchiale.

Da il Nostro Tempo (F. Gherardi)